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Il cinema di David MacDougall

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David MacDougall è una figura centrale dell’antropologia visuale la cui prolifica attività teorica e cinematografica, tuttora in corso, si è impressa in modo profondo negli ultimi quarant’anni di storia della disciplina. La sua pratica mac1cinematografica, spesso coadiuvata dalla moglie Judith, si è mossa tra diversi paradigmi dell’antropologia visuale: dal cinema di osservazione ad un cinema di tipo collaborativo che MacDougall chiama “di partecipazione”. Nei documentari che seguono quest’ultimo modello l’incontro tra nativi e cineasta non è più celato o posto in secondo piano ma diventa uno dei motori della rappresentazione e realizzazione del film: “al di là del cinema di osservazione c’è però la possibilità di un cinema di partecipazione in cui il regista prende coscienza di entrare in una realtà culturale diversa dalla propria e chiede ai suoi soggetti di imprimere direttamente nel film la loro cultura” (MacDougall). Negli anni Ottanta MacDougall parla di unprivileged camera style, cioè della possibilità di restituire col film un’immagine della vita dei nativi non da un punto di vista oggettivo e onnisciente ma da quello parziale e “umano” di una persona specifica, ovvero dell’etnografo. Dagli anni Novanta in poi, il cinema di MacDougall si muove nuovamente verso lo stile “osservazionale” ma con un’attenzione rinnovata nei confronti di elementi come lo spazio, il corpo e le percezioni sensoriali che rientrano nell’esperienza sociale dei soggetti ripresi. Lo studio dello spazio attraverso il film o il video, la comunicazione dell’esperienza sensoriale e l’impressione di presenza sul posto prodotta dall’indagine etnografica sono importanti aspetti delle ricerche di antropologia visuale che informano l’attività di MacDougall in questo periodo.
Possiamo suddividere all’incirca il lavoro cinematografico di MacDougall nel seguente modo:

 – Il periodo della trilogia sui Jie che comprende Nawi (1970), To Live With Herds A Dry Season Among the Jie (1972), Under The Men’s Tree (1973). Lo stile è quello del cinema di osservazione.mc

– Il periodo della trilogia sui Turkana che comprende The Wedding Camels (1976), Lorang’s Way (1977), A Wife Among Wives (1981).  La metodologia impiegata è quella del cinema di partecipazione.

 – Il ritorno ad un cinema di tipo “osservazionale” dopo Tempus de Baristas (1993).

Alcuni film di MacDougall presentano una combinazione tra queste diverse  metodologie come quelli girati presso i Boran negli anni Settanta.

Testi di approfondimento:

David Macdougall,
1998     Transcultural Cinema, Princeton University Press.
2006     The Corporeal Image: Film, Ethnography, and the Senses, Princeton University Press.

Il film etnografico

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L’espressione  “film etnografici” viene impiegata per quei documentari in grado di comunicare  una forma di conoscenza antropologica.  La spiegazione è volutamente sommaria:  questo genere di film si presta, storicamente, a diverse interpretazioni tanto che “film etnografico” è diventato un termine “ombrello” sotto il quale antropologi e cineasti hanno raccolto svariate teorie, anche molto differenti tra loro, dell’antropologia visuale. Per tale ragione al momento non è né facile né possibile proporre una definizione univoca che trovi un sostanziale accordo tra gli studiosi senza rimanere nei termini generali indicati. Tuttavia per cercare di inquadrare l’oggetto di studio e non perderci in un contesto troppo indefinito, vale la pena citare le definizioni e gli approcci al problema di alcuni tra i maggiori esponenti di questa disciplina.
L’argomento è molto vasto e complesso, qui mi limiterò a riportare cinque importanti punti di vista.

  • Karl Heider preferisce evitare una definizione diretta ritenendo più opportuno parlare di “etnograficità” di un film. A suo avviso un film per avere valore da un punto di vista antropologico deve rispettare determinati criteri che permettano di descrivere e comprendere al meglio i fenomeni sociali che intende rappresentare. Il film deve infatti avere un carattere olistico dove gli eventi vengono mostrati rispettando il più possibile l’integrità delle azioni dei nativi (“whole acts”),  dei soggetti ripresi nei piani e nei campi delle inquadrature (“whole bodies”), della personalità dei singoli individui (“whole people”) e delle interazioni tra i diversi attori sociali (“whole interactions”). L’impostazione fortemente normativa di Heider è orientata infatti a ridurre il più possibile ogni distorsione che l’antropologo-cineasta e la sua rappresentazione filmica possono produrre sulla cultura osservata. Ci muoviamo quindi in un quadro teorico di stampo positivistico dove si ha fiducia nella rappresentazione oggettiva, non mediata della realtà grazie a strumenti di riproduzione meccanici come la fotografia o il cinema.
  • Jay Ruby sostiene che un film etnografico sia tale quando è in grado di esprimere una teoria della cultura. Per far ciò il cineasta deve possedere un background da antropologo che gli permetta di trattare il film con lo stesso rigore scientifico di un’opera scritta. Il testo filmico deve infatti informare lo spettatore sulla metodologia di ricerca applicata e dare rilievo alla presenza dell’etno-cineasta sul campo per evitare una descrizione di tipo oggettivista in cui il film appare neutra rappresentazione della realtà. Il ricorso nel documentario a marche che ne indicano il  suo carattere costruttivo viene identificato con il termine di  riflessività. David MacDougall osserva giustamente che anche il discorso di Ruby rivela in ultima analisi il bisogno di arrivare, come Heider,  a “una  forma definitiva di verità scientifica” denunciando, però, ogni  “intellettuale e metodologica distorsione”. Inoltre per Ruby un film etnografico deve circoscrivere chiaramente l’oggetto di indagine (concentrandosi su un’intera cultura oppure alcune parti ben definite di essa) e deve adottare un lessico antropologico.
  • Per Sarah Pink non è possibile attribuire un valore di “etnograficità” all’immagine in base al suo contenuto, alla sua forma o al suo potenziale di documento visivo o di dato raccolto per la ricerca. Il valore etnografico dell’immagine, film incluso, è infatti contingente poiché dipende dall’uso, dall’interpretazione e dal contesto in cui essa si colloca: grazie a questi vengono richiamati e attribuiti significati e conoscenze di carattere antropologico. La prospettiva di Pink permette di includere diversi film nel genere “etnografico” e di spiegare le ragioni dell’analisi di opere e autori molto diversi tra loro nella letteratura di antropologia visuale.
  • Sol Worth, similmente, ritiene (cito dal manuale di antropologia di Paolo Chiozzi) che non sia possibile stabilire se un film sia etnografico o meno dal suo contenuto ma sia necessario guardare alla sua destinazione e uso comunicativo come avviene in qualsiasi altro genere cinematografico.
  • Robert Gardner afferma che il film etnografico è il risultato di “una modalità di osservazione dove le tecniche e la sensibilità sia dell’artista sia dello scienziato vengono combinate per penetrare nel significato e nella natura del comportamento umano”. Gardner tuttavia non ritiene necessario possedere una formazione accademica da antropologo per realizzare documentari di questo tipo. Questa, anzi, a causa della sua natura soprattutto verbale potrebbe inibire l’impiego e la comprensione di metodi visivi nella ricerca e nell’insegnamento. Per Gardner l’arte cinematografica non deve essere il contenitore “riempito” dalla conoscenza antropologica. Ciò che importa è  il rispetto della realtà degli  eventi rappresentati ottenuta grazie allo sguardo sia da scienziato sia da filmmaker. Per tale ragione è a suo parere necessario spendere un periodo considerevolmente lungo di tempo “per osservare, comprendere e quindi filmare un’altra cultura”. In questa commistione tra arte e scienza, i documentari di Gardner presentano descrizioni di tradizioni indigene e la loro personale interpretazione dell’autore.

Testi di approfondimento:

Heider, Karl.
1976 – Ethnographic Film, Austin, University of Texas Press (revisited edition, 2006).

Ruby, Jay.
2000 – Picturing Culture – Explorations in Film & Anthropology, Chicago – London, The University of Chicago Press.

Chiozzi, Paolo.
1993 – Manuale di antropologia visuale, Milano, Edizioni Unicopli (4a ed., 1999).

Gardner, Robert.
1967 – “Prospects and goals in the making of ethnographic films”, L’immagine dell’uomo – Rivista del Festival dei Popoli, Firenze, Le Monnier, numero unico, 1981, pp. 45-50.